Una donna fuori dal comune

Intervista a Franchina Aiudi di Claudia Romeo

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Ha occhi pieni d’amore mentre parla della sua Africa, la signora Franchina Aiudi. Le parole le scorrono veloci, tessono racconti, aneddoti, storie di vite durissime, si parla di guerra, morte, fame, bambini soldato, siccità e cambiamenti climatici. Ma il tempo sembra volare ad ascoltare quello che dice, quello che l’Uganda ha rappresentato e rappresenta.

Come è iniziato il tuo impegno con l’associazione Africa Mission?

Ho incontrato Don Vittorione a Fano in un periodo difficilissimo della mia vita, mio marito era morto da poco e volevo che le offerte raccolte al suo funerale fossero date a disposizione di una missione. Ho conosciuto Africa Mission e Don Vittorione tramite Giovanni Paci. Quest’ultimo ha poi insistito molto perché anch’io andassi in Uganda, ma ero restia perché pensavo che l’Africa fosse per gli uomini, le suore, i missionari, non per una donna comune.                                         Poi dopo tre anni, decisi di andare e di rimanerci per un mese.

Com’è andata?

Dopo 15 giorni, ho detto “ ma io cosa faccio qui, dove sono?” tutti che mi salutavano, anche per strada, quando sentivano passare le nostre macchine, tutti correvano per salutarci. Non so spiegare come mi sono sentita. Per quindici giorni sono stata così presa che non pensavo neanche all’Italia. Poi è arrivato questo senso di smarrimento e mi chiedevo “ma come è possibile? Sono così felici, non hanno niente e sono felici, mi salutano, mi vogliono un gran bene; ma chi sono io?”                                                                                                                            Tornata in Italia, sono ripartita dopo poco e sono rimasta in Uganda per quattro mesi; da allora in 19 anni ci sono andata 20 volte. Ho un grande amore per loro, mi hanno dato di nuovo la voglia e la forza di vivere. Ho un amore grande, anche per quelli che non conosco.

Di cosa ti sei occupata e ti occupi?

Adesso più che altro insegno taglio e cucito alle donne, un lavoro che faccio fin dalle prime volte.                                                                                                                            Ma i primi anni la situazione era diversa, venivano fuori dalla guerra. C’era tanta fame, c’era l’emergenza. Avevamo una mensa con tantissimi bambini con quei pancioni, faceva male vederli. Prendevamo un certo numero di denutriti e orfani, li pesavamo e ci prendevamo cura di loro per un periodo, poi dopo 15 giorni li pesavamo di nuovo e se si erano ripresi un po’ si cambiavano con altri bambini messi in condizioni peggiori. Non potevamo fare altrimenti per cercare di aiutarne il maggior numero possibile. Il giorno del cambio spesso capitava che rifiutavano il pasto prima della pesata. Era un modo per tentare di essere tenuti ancora. Adesso questa mensa non ce l’abbiamo più perché non c’è più l’emergenza.                                                                                                                                Allora vedevi bambini di sei, sette anni per strada con i fucili, adesso li hanno disarmati, ma in diversi ce li hanno ancora, qualcuno ha armi costruite in Italia, non lontano da noi.                                                                                                                      Non ti so dire quanti bambini ho visto morire, specialmente con la malaria.

E per quello che riguarda l’insegnamento di taglio e cucito?

Abbiamo una quindicina di donne che nel tempo hanno imparato bene e lavorano per noi, con loro confezioniamo borse ed altre cose per un mercatino. Vengono pagate 50 mila scellini, cioè15 euro al mese. Usiamo delle vecchie macchine da cucire che abbiamo portato dall’Italia.                                                      Per le altre donne organizziamo corsi di cucito a mano. Dispongo turni da trenta corsiste a cui insegno a cucire una borsa, due gonne, una maglietta, un vestitino per bambini. Alla fine del corso, ci portano un po’ di legna e noi diamo loro quello che hanno cucito, quindi, i vestiti sono per loro che decideranno poi se tenerli o venderli. In due mesi di permanenza faccio fino a cinque turni da trenta donne per volta.

Com’è la vita dei bambini adesso che la guerra è finita?

I maschi fino a sei, sette anni badano ai capretti, quando hanno dagli otto anni in poi le capre più grandi, verso i quindici anni accudiscono le mucche.                         I bambini quando è caldo, verso mezzogiorno, si radunano sotto le piante vanno sotto la capretta, tirano giù un po’ di latte e prendono il latte lì. É molto importante avere le caprette in una famiglia, infatti, abbiamo promosso un’azione da qui che chi voleva ci dava i soldi per una capretta e noi le abbiamo date alle famiglie che non l’avevano.                                                                                        Le bambine, invece, aiutano le madri nei compiti “da donna”, cioè andare a prendere l’acqua, la legna o il carbone, cose che poi portano sulla testa.                  L’infibulazione è una pratica molto diffusa, viene praticata da donne anziane con un ferro fatto ad uncino a bambine dagli otto anni in poi. Non ci sarebbe l’obbligo, ma la famiglia ne è contenta, perché a quel punto sono pronte per il matrimonio, non provando piacere non tradiranno il marito. Molte muoiono o lì per lì o durante la gravidanza.

In generale, com’è cambiata in questi anni l’Uganda che conosci?

La guerra non c’è più. L’economia delle famiglie si basa sul raccolto che, a sua volta, dipende da come procede la stagione delle piogge che di solito va da marzo ad agosto. Seminano sorgo, mais e qualche verdura. Ma da qualche anno il raccolto è pochissimo perché le piogge arrivano sempre più tardi, quest’anno sono iniziate a maggio, e sono torrenziali. A volte seminano fino a tre volte per avere un po’ di raccolto.                                                                                                                Se hanno un po’ di raccolto, sono felici, basta poco.

Come funzionano le scuole?

Diciannove anni fa a scuola andava il 25% dei bambini, adesso siamo al 50/60%. La scuola si paga.                                                                                                                           Non dimenticherò mai la prima scuola che ho visto. Sotto una pianta c’erano 200 bambini seduti a terra, sulla pianta c’era una lamiera che avevamo dato noi. Intorno a fare il perimetro c’erano i mattoni. I bambini non avevano né quaderni né niente. Il maestro scriveva sulla lamiera, loro sulla sabbia. Poi il maestro girava fra loro per controllare. Questa era la scuola e in questi casi si insegnava soprattutto matematica.                                                                                                            Don Vittorione aveva allestito una scuola sotto una tettoia nella missione. Poi l’abbiamo fatta in muratura, adesso ce ne sono tre. Da noi non pagano, sono statali, ma generalmente in Uganda si paga per studiare. Però è obbligatoria la divisa, come in tutte le altre scuole. Le divise costano 15 mila scellini, 5 euro, e le famiglie spesso non hanno possibilità di comprarle. L’hanno scorso ne ho fatte 300 e le abbiamo distribuite.

Cosa fate per aiutare le persone a sostenersi?

Non facciamo elemosina, aiutiamo gratuitamente senza chiedere niente in cambio solo gli ammalati e gli anziani, lì una persona di 40 anni è già messa molto male.                                                                                                                                    Nella zona del Karamoja, molto arida, abbiamo scavato 700 pozzi e ancora ne stiamo facendo. Più passa il tempo, più bisogna scavare, l’acqua potabile si trova a circa 100 metri, un pozzo viene a costare molto. Poi ci si mette la pompa a mano. Dove ci sono i pozzi c’è la fila di donne con la tanica, là si pompa continuamente.                                                                                                                    Abbiamo costruito tre scuole dove l’unico obbligo è la divisa.                                 Per il resto facciamo lavorare i padri o le madri, ad esempio se c’è da pitturare la scuola chiediamo operai e in cambio diamo cibo, vestiti.                                          In più, in missione abbiamo circa 200 operai, ne teniamo più di quanto ne servano per aiutare un maggior numero di famiglie.

Come ti senti quando torni in Italia?

È tremendo tornare, soprattutto le prime volte. Lì c’è tanto entusiasmo, al ritorno hai voglia di raccontare tutto, ma gli altri spesso sono indifferenti. Lo dico sempre a chi viene le prime volte.                                                                 Bisognerebbe avere la possibilità almeno una volta di vedere.

E quando sei in Italia cosa fai per loro?

Raccolgo soprattutto offerte in denaro, poi quando arrivo nella capitale dell’Uganda compro quello che serve per la missione e per i poveri di cui ci occupiamo.                                                                                                                                   Come vestiti da qui porto soprattutto le magliette, più difficili da confezionare lì. Qualche ditta ci dà della stoffa da portare in Africa, danno soprattutto jeans e stoffe bianche o nere. Con i jeans cuciamo le borse ed i pantaloni delle divise. Le stoffe bianche e nere a loro piacciono poco perché amano i colori, ma troviamo sempre il modo di allestire cose carine che si avvicinino al loro gusto.                         Vado anche nelle scuole del nostro territorio, faccio vedere dei filmati, raccolgo qualche soldino. Vado per sensibilizzare i bambini. Ai bambini dico che con 1 euro do una ciotola di mangiare a 4 bambini africani. Li invito a fare a meno di qualche capriccetto, come figurine o caramelle, per dare quel soldino per i bimbi ugandesi. Con i soldi donati dai bimbi italiani organizzo ogni anno un pranzo in cui do da mangiare a bambini, anziani e malati

A questo punto con le domande avevo finito, era trascorsa più di un’ora, ma Franca ci teneva a raccontarmi alcuni aneddoti, storie che le sono capitate perché come dice lei laggiù le parla tutto. Ve ne riporto una con le sue parole.

Al sabato quando non lavoro vado in un ospedale statale, dove spesso mancano le medicine, a portare qualcosa, a vedere se c’è qualcuno che posso aiutare. C’era una mamma vicino ad un letto dove c’era un bambino malato che sembrava moribondo. Mi sono accorta che era senza flebo, di solito le mettono nella testa perché è difficile trovare le vene. Ma lui non ce l’aveva. Ho chiesto, tramite l’autista, perché il bimbo era senza medicine. La madre ha risposto che l’ospedale aveva la medicina, ma non aveva gli aghi. L’ago costa 500 scellini, come le nostre vecchie 500 lire. La mamma però non aveva scellini e stava lì, doveva vedere morire il figlio perché non aveva 500 scellini. Le ho dato i soldi e le ho detto di andare a comprare l’ago, fuori c’erano e si potevano acquistare. É tornata con l’ago e hanno messo la flebo al piccolo. Sono ripassata il sabato successivo… il bambino era seduto sul letto, gli ho dato una banana e l’ha mangiata. Se non fossi passata quel giorno sarebbe morto e la mamma avrebbe dovuto assistere senza poter fare niente.

Torno a casa e in macchina penso che si può morire se non ci sono i soldi per comprare un ago.                                                                                                                               Per chiunque abbia voglia di donare qualcosa a Franca il suo numero è            338 1807740.                                                                                                                                   Con 1 euro mangiano 4 bambini, con 50 centesimi si compra un ago.

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